Il calcio italiano ha dimenticato il 25 aprile

Chi giovedì scorso ha dato un’occhiata sui social potrebbe aver notato che praticamente tutti i club portoghesi hanno pubblicato qualcosa per celebrare il Dia da Liberdade, il giorno della caduta del regime fascista di Salazar, il 25 aprile 1974. Il cinquantennale della fine della dittatura è chiaramente un evento speciale, ma in realtà ogni anno le socità lusitane non mancano di sottolineare questa ricorrenza. Il Benfica, il Porto, lo Sporting, e poi anche tutte le altre squadre anche meno in primo piano: tutte partecipano alla memoria del giorno della democrazia in Portogallo. La fine del fascismo in Portogallo cade, com’è noto, nello stesso giorno di quella italiana, dove la liberazione dal nazifascismo è avvenuta però 29 anni prima. Eppure, in Italia praticamente nessuna società di calcio professionistico sembra avvertire il bisogno di ricordare quello che è stato un momento fondamentale per la storia del nostro paese, e anche per il nostro calcio.

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L’allenatore e il giornalista nazista: quando Radomir Antić si scontrò con Hermann Tertsch

“Si sa che Hermann Tertsch è una nazista da tutta la vita”. Con queste parole, pubblicate nel settembre del 1995 sul magazine di El Mundo, la stagione calcistica spagnola si apre con un caso clamoroso. L’autore è uno degli uomini del momento nella Liga, intervistato per l’occasione dalla giornalista Carmen Rigalt: si chiama Radomir Antić, è uno jugoslavo della Vojvodina di 44 anni, e in estate ha assunto l’incarico di allenatore dell’Atlético Madrid, una nobile decaduta del calcio iberico ansiosa di tornare tra i grandi. L’oggetto del commento – il “nazista” – si chiama appunto Hermann Tertsch ed è uno dei più noti giornalisti di Spagna: ha solo 37 anni, ma da anni lavora per le principali testate del paese ed è diventato uno degli inviati più stimati e attenti della cronaca internazionale, e da qualche tempo è la firma di El País dal teatro balcanico, dove sta seguendo la sanguinosa guerra civile locale.

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La Rai contro Carosio: storia di un insulto razzista in diretta

L’Italia farebbe meglio a vincerla, questa partita. Anche perché l’avversario è molto più che abbordabile: Israele, all’esordio ai Mondiali, è una squadra modesta, specialmente di fronte ai campioni d’Europa in carica. Eppure è ancora 0-0, stesso risultato che si sta verificando anche a Puebla tra Svezia e Uruguay, che in virtù della differenza reti favorevole ai sudamericani piazza gli Azzurri come secondi nel girone. L’Italia, in realtà, in vantaggio ci andrebbe anche: Riva serve un cross per Burgnich che colpisce di testa e batte Vissoker, ma è in fuorigioco. E poi di nuovo un cross, alla mezz’ora del secondo tempo, e stavolta a staccare di testa c’è proprio Riva, che con una frustata mette nuovamente alle spalle del portiere israeliano. L’arbitro brasiliano De Moraes convalida, ma il guardalinee etiope Sejum Tarekegn alza la bandierina: non è gol nemmeno stavolta. Poi, però, accade qualcos’altro: non qualcosa che si vede, ma che si sente. Carosio, la voce storica del calcio italiano, ha pronunciato il primo insulto razzista della storia della nostra televisione.

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Per un calcio che sia democratico: il Movimento Football Progrès

I calciatori vogliono fare la rivoluzione. Anche per la Francia, che di rivoluzioni se ne intende abbastanza, questa storia suona assolutamente fuori dal comune. Ma i tempi sono quelli che sono: è il 1974, i giovani vogliono cambiamento, libertà e democrazia; quelli più politicizzati si spingono oltre, e parlano apertamente di autogestione. E questi discorsi arrivano anche nel mondo dello sport: un giorno di febbraio alcuni giocatori si riuniscono in una sala della cittadina di Saint-Cyr-l’École, nell’Île-de-France, e comunicano che formeranno un gruppo culturale ribelle aperto solo a chi lavora nel mondo del calcio, il Mouvement Football Progrès. Fin dal suo primo comunicato, il movimento promette battaglia, innanzitutto contro la Federcalcio, e se necessario anche nei confronti dei club.

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Non siamo razzisti ma supercalifragilistichespiralidoso

Quando, la scorsa settimana, diedi il titolo al precedente articolo sul caso Acerbi, temevo di avere forzato un po’ troppo i toni: “Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi”. Sette giorni dopo, sembra però evidente che quella frase era stata fin troppo generosa, e soprattutto mi sono ritrovato senza più un titolo così adeguato per questa necessaria seconda parte. Qui non intende tornare nel merito di ciò che è successo in campo e della sentenza, perché il Giudice Sportivo ha preso una decisione definitiva. Prove video, audio o altre testimonianze non ce ne sono, per cui non ho elementi per discutere l’assoluzione del difensore dell’Inter. C’è però tutto un contorno di questa videnda che dimostra molto chiaramente come la questione del razzismo sia intrinsecamente inaffrontabile nel calcio italiano. E il problema è prima di tutto informativo ed educativo: nel senso che la maggior parte della gente che dovrebbe conoscere il fenomeno pare invece essere la meno informata a riguardo.

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Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi

Il caso tra Acerbi e Juan Jesus segnerà probabilmente un prima e un dopo nel rapporto tra il calcio italiano e il razzismo. Quale sarà la decisione del Giudice Sportivo, attesa già nella prossima settimana, le conseguenze sono probabilmente prevedibili: in caso di condanna, gli innocentisti quasi certamente peroreranno la causa del difensore nerazzurro paventando o complotti anti-Inter o la solita “dittatura del politicamente corretto”; in caso di assoluzione, sarà difficile, dopo quello che è circolato sui social, lavare via dal giocatore l’immagine del razzista impunito, considerati anche i precedenti non proprio edificanti del nostro calcio nel sanzionare simili comportamenti. E, ovviamente, se ci sarà la squalifica la carriera di Acerbi potrà dirsi finita: è già trapelato che l’Inter potrebbe licenziarlo, di sicuro non verrà portato agli Europei, e a 36 anni gli converrà ritirarsi e lasciar calmare le acque, nella speranza di poter rientrare nell’ambiente in un prossimo futuro.

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Joaquim Santana, dal campo alla prigione per la causa dell’indipendenza

Quando il Benfica sollevò la sua prima Coppa dei Campioni, il 31 maggio 1961, gran parte del merito era anche suo: le Águias avevano concluso una stagione eccezionale vincendo anche il campionato, e Joaquim Santana si era imposto come il terzo miglior realizzatore stagionale della squadra con 20 gol all’attivo, secondo solo al centravanti e capitano José Águas e all’ala destra José Augusto. Quella squadra eccezionale, allenata dall’ungherese Béla Guttmann, poteva fare affidamento su uno schieramento offensivo eccezionale, con Águas e Augusto a finalizzare, il genio di Mário Coluna a impostare il gioco, e in mezzo, come mezzala destra, proprio Santana, brillante dribblomane capace di accendere le partite e unire la tecnica individuale del trequartista alla capacità realizzativa dell’attaccante puro.

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Una mappa del tifo politico del calcio in Israele

Giovedì sera un gruppo di tifosi del Maccabi Tel Aviv, in trasferta ad Atene per una gara di Conference League contro l’Olympiakos, ha aggredito una persona che sembra portasse con sé una bandiera palestinese. Il fatto ha riportato l’attenzione sulla politicizzazione del calcio in Israele, un argomento generalmente poco conisciuto in Europa se non per alcuni casi eclatanti, come quello dell’Hapoel Tel Aviv (per via del noto gemellaggio col St. Pauli) e quello, di segno ideologico totalmente opposto, del Beitar Gerusalemme. In realtà la mappa del tifo politico in Israele è ben più variegata, e per certi versi anche molto distante dallo stesso fenomeno in Italia e in buona parte dell’Europa, dove di solito i club di primo piano sono quelli coi tifosi ufficialmente meno schierati. In Israele, invece, sono proprio le squadre più seguite quelle che hanno le caratterizzazioni politiche più evidenti.

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Hiddink contro i nazisti

Il 9 febbraio 1992 si scrive una piccola ma significativa pagina della storia del calcio in Spagna. Allo stadio Lluís Casanova di Valencia si gioca una partita di metà campionato tra la squadra di casa, terza in classifica, e la sorpresa Albacete, neopromossa e quinta nella Liga, imbattuta da undici partite. Ma la storia dell’incontro non la fa tanto quel che succede in campo dopo il fischio d’inizio, ma bensì quando avviene oltre i bordi del rettangolo verde giusto prima del via. L’allenatore del Valencia, un 45enne olandese di nome Guus Hiddink, si avvicina a un membro del personale dello stadio durante il riscaldamento e gli indica un punto ai limiti del campo, oltre il fallo laterale, dove ci sono le transenne che separano i tifosi ospiti dal prato. “Togliete subito quella cosa, se no non si gioca” dice secco Hiddink. Quella cosa è una bandiera con una svastica.

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Un aborigeno ai Mondiali

La strada tra Peakhurst e Berlino Ovest sembrava spropositata. Calcare il campo dell’Olympiastadion faceva tremare le gambe, e quello stadio semivuoto (anche se quasi 15.000 presenti non erano certo meno del pubblico con cui erano soliti confrontarsi in Australia) amplificava ulteriormente quella sensazione abbacinante. A 23 anni, quello era il suo momento: lo aveva inseguito a lungo, aveva messo da parte il rugby – prendendosi non pochi insulti, per questo – per poter esser un calciatore squattrinato che adesso stava giocando il Mondiale. Harry Williams sentiva di far parte di una squadra di pionieri: i primi Socceroos a giocare la Coppa del Mondo. Avevano perso le prime due partite, in cui lui non era sceso in campo, e per la terza gara del girone contro il Cile speravano almeno in un pareggio. Una stoica resistenza contro i giocolieri sudamericani, che avevano bisogno di una vittoria per passare il turno. A una decina di minuti dalla fine, il ct Rašić aveva tolto Colin Curran per inserire un giocatore fresco ed energico come Williams, subito dopo che Ray Richards si era preso il secondo giallo, assestando un brutto colpo alle speranze australiane.

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